Taurania Revenge. Califano in aula: “Se andavi contro il clan facevi la fine di Venditti e Aziz

La deposizione del collaboratore di giustizia Domenico Califano, sul "sistema Pagani" e la gestione del traffico di droga nelle mani del clan camorristico Fezza - Petrosino.

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«Decisi di collaborare con la giustizia perché volevo uscire dal clan. Non ne potevo più». «Chi decideva di spacciare per conto proprio, faceva la fine di Venditti e Aziz». Sono alcuni degli stralci della testimonianza resa ieri in aula da Domenico Califano, dal 2010 pentito ed ex componente del clan Fezza-Petrosino D’Auria. La sua deposizione è cominciata ieri mattina, con l’esame del pm della Dda, Vincenzo Montemurro, e si chiuderà il prossimo 6 aprile, prima del contro esame degli avvocati difensori. Una testimonianza “chiave”, quella di Califano, sulla quale è stato in sostanza costruito l’impianto accusatorio del “Taurania Revenge”, incentrato sul “sistema Pagani” e la gestione del traffico di droga nelle mani del clan camorristico Fezza – Petrosino. Califano ha ripercorso gli inizi della sua collaborazione e di come entrò a far parte del gruppo, grazie alla preziosa amicizia con uno dei suoi uomini di maggior riferimento, Vincenzo Confessore. «Avevo deciso di smettere e uscire dall’organizzazione, ma per Francesco Fezza non era possibile. Mi obbligarono con la forza a continuare. Mi fu imposto. Come quando si presero la mia Smart, per un debito che avevo con loro di circa 700 euro. La decisione la presi dopo una perquisizione  che dei carabinieri in borghese fecero in casa mia. All’inizio lavoravo con le macchinette, poi Confessore mi minacciò dicendo che avrei dovuto installare quelle per i videopoker nei bar a Pagani. E dar conto al clan, oltre a versare una percentuale. Fu così che fui introdotto ai vertici».

Proprio l’amicizia con Confessore risultò per Califano un lasciapassare per compiti maggiori, come la gestione dei depositi per le armi e la droga: «Divenni il suo “compariello – ha continuato il pentito – e per questo cominciai ad avere rispetto. Il clan aveva l’esigenza del controllo su armi e droga. Avevano pochi uomini e mi ritenevano all’altezza del compito. Per la droga, si riforniva a Torre del Greco, ma essendo una città troppo militarizzata, spesso andavamo a rifornirci anche a Sant’Egidio da “O’ zombie” (Vincenzo Greco, ndr)». Poi la scioccante ammissione di Califano: «A Pagani se volevi spacciare, dovevi prendere la roba del clan. Se pensavi di fare diversamente, non arrivavi nemmeno al giorno dopo. Facevi la fine di Venditti e Aziz». Il riferimento è ai due brutali omicidi, commessi nel periodo di maggiore forza del gruppo criminale. Due omicidi per i quali sono finiti sotto processo uomini di spicco di quell’organizzazione, come Andrea De Vivo, Vincenzo Confessore e Francesco Fezza, oltre che Luigi, ma al momento rinviati entrambi in Corte d’Appello su decisione della Cassazione. «Bastavano quei due omicidi – ha spiegato Califano – a fare da esempio per tutti i pusher a Pagani». Poi la rottura: «Un giorno riscontrai un ammanco in una partita di cocaina. Non riuscì a tenerlo per me e lo dissi a Francesco Fezza, che mi portò da Antonio Petrosino D’Auria. Mi disse di star tranquillo e che non mi sarebbe successo niente». Quell’ammanco Califano lo ha attribuito a Confessore, con il quale i rapporti si incrinarono dopo quella rivelazione. «Confessore mi disse che ero vivo solo grazie a “Tonino”. Antonio Petrosino D’Auria mi disse di non preoccuparmi, perché senza la sua parola Confessore non poteva far nulla».

Nicola Sorrentino

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