Stop della Cina all’importazione dei rifiuti, l’Italia si doti di una strategia

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La Cina dal 1 gennaio 2021 non accetterà più l’importazione di rifiuti o di materie prime seconde, facendo scattare quindi il divieto totale. Una decisione prevedibile, dopo un primo giro di vite sui materiali riciclabili in ingresso avvenuto nel 2017.

Si iniziò con il divieto di importazione di 24 tipi di rifiuti solidi, fra cui carta non differenziata e tessuti, per proseguire con plastica ed altri materiali.

Fino al 2017 la Cina lavorava la metà circa dei prodotti riciclati del mondo, circa 45 milioni di tonnellate fra carta, metalli e plastiche. Poi la quantità è costantemente scesa, per arrivare nel 2020 a poco più di 8 milioni di tonnellate.

La potente macchina industriale cinese nei settori dei metalli, della carta, della plastica e del vetro, ha avuto bisogno per anni dei flussi di recyclables dall’Europa e dagli Stati Uniti per alimentare le proprie produzioni.

Adesso ha deciso di fare da sola, utilizzando i propri materiali di rifiuto, scelta possibile per l’incremento dei consumi avvenuto negli ultimi 5 anni.

La Repubblica Popolare Cinese produce al suo interno 215 milioni di tonnellate di rifiuti solidi, lì intende trovare i flussi di riciclabili necessari per la propria industria. Per fare questo ha stanziato 15 miliardi di euro, per finanziare progetti di riciclaggio e prevenzione.

Dietro la decisione cinese non c’è solo la scelta “politica” e di immagine di non voler essere più la pattumiera del mondo, ma anche una strategia industriale precisa, di autosufficienza in un settore chiave come quello dell’economia circolare.

Una scelta strategica, quindi, e non solo tattica, nel segno del rinnovato ruolo green delle politiche economiche cinesi, già manifestato nel campo della lotta ai cambiamenti climatici.

Quali saranno le conseguenze di questa decisione?

Di sicuro il mercato mondiale del riciclo cambierà, in vari modi. È verosimile pensare che i flussi destinati alla Cina si sposteranno verso altri Paesi del Far East, come Vietnam, Malesia e Thailandia, i cui tessuti produttivi, pur in crescita, hanno adesso caratteristiche simili a quelle della Cina di 10 anni fa. Oppure anche verso la Turchia e i Paesi del Nord Africa.

Ma lo “strappo” cinese potrebbe essere anche l’occasione per un ripensamento delle politiche di riciclo da parte dei Paesi più avanzati, come l’Europa e gli Stati Uniti, e quindi l’Italia. La sfida, analoga a quella cinese, potrebbe essere quella di aumentare la propria capacità di riciclo interno, in una logica “protezionistica” non molto sensata in un contesto di concorrenza globale, ma probabilmente opportuna e prudente.

In Europa una policy forte in materia di riduzione dei rifiuti, di progettazione di oggetti riciclabili e di aumento dell’uso di materie prime seconde nei prodotti, potrebbe ridurre i flussi di export. Al tempo stesso una politica industriale tesa a rafforzare la capacità di riciclo interno potrebbe consentire un’ulteriore riduzione dell’export, con il beneficio di tenere entro i propri confini i vantaggi economici di queste attività, invece di esportarli. Tutte cose coerenti con la strategia di economia circolare avviata dall’Unione Europea con il suo “Pacchetto” del 2018.

Per l’Italia si intravedono alcuni problemi. Esportiamo circa 100.000 tonnellate di carta in Cina (200.000 verso la Turchia), e circa 200.000 tonnellate di plastica. Quantitativi importanti, ma assorbibili se si definisce una politica nazionale del riciclo. Un pezzo di quella strategia nazionale di settore da tempo richiesta dalle aziende che gestiscono la filiera dei rifiuti al Governo italiano e per adesso poco ascoltata.

Certo è che l’annuncio cinese deve “svegliare” i decisori politici nazionali e locali dal sogno irrealistico di un’economia circolare che gira da sola, sulla base della semplice dinamica di un mercato globale. Non è cosi, purtroppo.

E lo slogan “rifiuti zero” rischia di naufragare di fronte alle scelte dei Paesi importatori di riciclabili. Abbiamo deciso di usare il mercato globale per conferire il 65% dei rifiuti urbani e circa il 70% dei rifiuti speciali in Italia, una montagna fatta di oltre 100 milioni di tonnellate di materiali all’anno.

Una decisione che diventa, quindi, per la sua dimensione, una variabile della sicurezza nazionale nella gestione ambientale. Se il mercato nazionale e globale non dovesse rispondere l’Italia rischierebbe emergenze rifiuti drammatiche.

Da qui l’urgenza di una strategia nazionale, industriale nei settori del riciclo (carta, vetro, plastica, metalli, legno, organico), ma anche capace di dotare il Paese di una capacità impiantistica e di stoccaggio non solo in grado di garantire il flusso di rifiuti non riciclabili (inclusi gli scarti del riciclo), ma anche di “reggere” eventuali crisi di sistema (il blocco dei mercati esterni o gli effetti di una pandemia).

La Cina ha una strategia, dobbiamo averla anche noi.

Alfredo De Girolamo Esperto ambientale, giornalista

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