La città dei morti viventi. I racconti di Carmine Lanzieri Battaglia

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Stamattina, dopo alcuni mesi, in ossequio ad un verso della più famosa lirica di Totò che recita: “Ognuno ll’adda fà chesta crianza, ognuno adda tené chistu penziero”, sono stato al cimitero cittadino.

Mancavo da parecchio semplicemente per una mia carenza di tempo ma ancor più di volontà, perché quando si vuole veramente fare qualcosa, il tempo si trova sempre. Entrando al camposanto, io ho un mio percorso che seguo diligentemente, non per fare in fretta, ma semplicemente per non dimenticare di salutare nessuno, familiare o amico che sia. Mi sono premunito di un certo numero di ceri, che la luce eterna non abbia mai a mancare ai defunti, e mi sono avviato.

Il luogo era vuoto, desolatamente. In realtà qualche persona si intravedeva tra i loculi e gli smunti alberi, ma erano talmente poche le presenze, che sparivano nello spazio dedicato alle tombe. A passo lento, come appunto il Principe de Curtis nella sua “A livella”, buttavo gli occhi sulle tombe man mano che entravano nella mia visuale ed una stretta mi ha preso alla gola, allo stomaco, al cuore stesso. Tutto sembrava abbandonato e forse lo è veramente; il coronavirus non solo ha causato tanti lutti ma ha cambiato radicalmente il nostro modo di “interagire” con il mondo dell’aldilà.

Ne hanno parlato con le lacrime agli occhi in tanti, dei funerali senza cortei, delle salme chiuse nelle bare anonime al punto da non sapere su quale piangere, dei pazienti morti da soli, senza il conforto di un volto caro, forse solamente stringendo la mano di un accorato infermiere o di un dottore pietoso; ed ora anche il luogo dedicato al riposto eterno del nostro corpo terreno, è praticamente lasciato nell’incuria, trascurato. Mi ha fatto male vedere le lapidi sporche di pioggia e polvere, i ceri votivi spenti, i vasi con i fiori finti polverosi, ed i pochi che una volta sono stati freschi, ormai penzolanti senza vita, anch’essi.

Non sono rimasto a lungo, come sempre del resto: il cimitero è un luogo che non disdegno di visitare ma non gradisco soffermarmi molto, troppi ricordi, troppe facce note, troppe storie legate a foto, nomi, epitaffi. Uscendo ed avviandomi alla macchina, ho lasciato che i pensieri prendessero il sopravvento ed ho realizzato che la chiusura forzata del cimitero da parte delle autorità, non è certo la causa principale dello stato di trascuratezza in cui versano le tombe ed i loculi, a questo contribuisce sicuramente anche il fatto che non tutti possiamo uscire di casa, chi per paura, chi perché in isolamento forzato, chi perché tutto vuole vedere tranne il luogo dei morti. E come dargli torto? del resto ormai la nostra cittadina sembra essa stessa un cimitero.

Negozi che chiudono con un effetto domino devastante, giardini e piazze off limits a seguito di ordinanze varie, file chilometriche al “drive in” per i tamponi effettuati dal personale dell’USCA, sguardi ed atteggiamenti di sospetto gli uni verso gli altri, rassegnazione verso un futuro dai contorni oscuri. Il “miraggio” della vita eterna, predicato dai moderni pulpiti delle Chiese, non fa più presa sulle anime peregrine dei giorni nostri: sembriamo tutti come quel rospo, sguazzante nei solchi tracciati dalle ruote dei carretti sulle strade erbose dei tempi andati, ormai aspettiamo inerti che il nostro destino ci schiacci, ed amen.

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